Nero e bianco, dolce e salato…

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E se non ci fossero solo binari?

Maschio e femmina… Dolce e salato… Bianco e nero… Destra e sinistra… Nord e sud… Per orientarci, per scegliere, per comprendere dobbiamo sempre dividere! Un grande autore come Oscar Wilde ci aveva visto lungo quando aveva detto che definire è… limitare! È solo perché ci sono delle persone che definiamo anziane, che noi possiamo parlare di “adolescenti”. È solo perché consideriamo alcune persone “nere”, che altre possono definirsi “bianche”. Infine, è solo perché ci siamo costruiti l’idea di eterosessualità come identità e soggettività che noi possiamo parlare di omosessualità.

Così il metodo della divisione e il principio del terzo escluso sono diventati strumenti necessari per il nostro cervello, che rifiuta qualsiasi cosa non sia classificabile. Ma come si può classificare il mondo in base al solo principio di divisione? Qual è la soglia oltre la quale non è più possibile definirsi adolescenti o anziani? Qual è la precisa tonalità che ci permette di essere definiti “bianchi” o “neri”? E poi, Michael Jackson cosa direbbe a riguardo? Per non parlare della categoria cisgender, contrapposta al transgender, i cui confini sono così labili che difficilmente si ha una suddivisione netta del genere umano sotto questi due insiemi.

Una cosa è chiara: qualsiasi elemento che sfugga alla dominazione delle “etichette” ci turba, ci distrae, e bisogna per questo definirlo. Ma per definirlo bisogna prima di tutto nominarlo. Il linguaggio viene in nostro soccorso nell’impresa schematizzatrice che riduce tutto il mondo a un binarismo, a un sistema che definisce “ciò che è”, per dirla con Parmenide, a partire da tutto ciò che non è. Anche la nostra identità cade vittima del giogo del linguaggio, di questo strumento politico che, agendo sulle nostre soggettività, fa sì che siamo investiti con i termini che ci definiscono.

La classificazione del maschile e femminile non fa eccezione: noi cresciamo in base alle “norme” dettate dal genere cui pensiamo di appartenere o al quale ci dicono che apparteniamo sulla base del nostro organo sessuale, e che determinerebbe anche il nostro orientamento sessuale, che dovrebbe essere indirizzato verso il genere antitetico al nostro. Così è nato il sistema binario che tenta di racchiudere qualsiasi persona entro queste due categorie, noncuranti di notare come questo dualismo non sia esaustivo per definire la soggettività di tutte le persone. Fortunatamente, di recente tutto questo è emerso come un problema che si è cercato di risolvere introducendo nuove desinenze inclusive, oppure inventando nuovi nomi, ad esempio “queer”, e da questi sono nate delle nuove soggettività, usufruendo dello stesso vettore di potere (il linguaggio) attraverso cui si è racchiuso l’intero genere umano nelle due categorie femminile/maschile.

Foucault va in questa direzione quando pensa che non bisogna intendere il potere solo come “repressione”, come quello che vieta, o che impone una legge. Il potere si dà anche e soprattutto attraverso un insieme di norme, regole e tecniche di sorveglianza e punizione che costruiscono le nostre soggettività. Questi sono i “dispositivi di potere”, in cui rientra anche la sessualità. Questo dispositivo non ha il solo scopo di imporre la norma dell’eterosessualità feconda, ma si sofferma anche sul controllo delle soggettività minoritarie: è indicativo che “l’invenzione” dell’omosessualità venga collocata nella seconda metà dell’800, quando si è riconosciuta l’essenza di questa identità in una “inversione” degli elementi maschili e femminili nella psiche. Ecco come si costruiscono dei soggetti: non tanto attraverso la violenza della legge, ma attraverso un potere che deriva dalla medicina, dalla psichiatria, dalle convenzioni sociali. Questo non significa che l’omosessualità non fosse presente prima. Significa solamente che ha preso una sua fisionomia attraverso l’atto di nominarla.

Questo è il potere del linguaggio, che bisogna considerarlo nel suo essere arma a doppio taglio. Attraverso la parola noi siamo in grado di dar voce a tutte quelle minoranze che sono emerse come identità politiche. Questo è sicuramente un “pro” da tenere in considerazione. Ma quello che può fare la lingua è sempre e solo una classificazione che utilizza il principio di inclusione o esclusione per definire i soggetti entro una specifica categoria, senza considerare che ci sono persone che non riescono a sentirsi parte di nessuna categoria. E quindi cosa bisogna fare? Continuare a inventare nuove parole per cercare di dare un posto a tutti in questo mondo? O abbandonare del tutto l’impresa titanica di etichettare identità per loro natura indefinibili? In fondo, chi è interamente definibile? A voi la scelta.

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