La nostra professoressa di lettere Francesca Drago in collaborazione con la docente di tecniche di comunicazione e relazione Isabella Silvestri, ha proposto un argomento di attualità davvero interessante sul quale riflettere. Il giorno 28 gennaio abbiamo ospitato in aula le volontarie dell’IPM di Treviso assieme ad un ex-detenuto che ci ha illustrato la sua vita attuale e il suo cambiamento.
Nella stessa giornata abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci con Elisabetta Zamparutti, tesoriere dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” attraverso un meeting digitale organizzato dalla nostra professoressa di tecniche di comunicazione.
Fin da subito l’attenzione è stata posta sul significato della parola “carcere/ istituto penitenziario” luogo di punizione e di distribuzione di dolore.
Infatti deriva da “pena” la cui finalità è volta al risarcimento del danno subìto dalle vittime, quindi spesso erroneamente intesa nell’immaginario collettivo come una sorta di vendetta che tuttavia non può essere un sinonimo di giustizia.
Oltre a richiedere di rispettare i principi costituzionali, la dott.ssa Zamparutti cita anche l’articolo 27 della Costituzione che sottolinea soprattutto la finalità della rieducazione del reo secondo i principi di umanità presenti nella Dichiarazione dei diritti umani dell’ONU. Si deve innanzitutto cercare di interrompere la catena basata sulla restituzione del male ricevuto. Essere bloccati nella vendetta diventa “tossico”, non liberatorio come si pensa, perché non ripristina la serenità della vittima, né elimina i fatti gravi accaduti.
La condanna all’ergastolo e la pena di morte sono un ulteriore reato che non fa che aumentare il male e l’ingiustizia. Infatti come ci ha insegnato il filosofo Talete: “Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, perché o siamo diversi noi o sono diverse le acque che scorrono”. Una metafora per ricordarci che i detenuti sono persone che in un preciso momento della loro vita hanno commesso un errore, ma che durante la detenzione in carcere sono maturate e spesso cambiate in meglio. Quindi se venissero poi uccise oppure escluse dalla società per sempre, sarebbe come fare un omicidio nei confronti di persone completamente diverse da quelle condannate inizialmente.
Questa idea del cambiamento migliorativo del reo, dovrebbe essere alla base di una nuova mentalità, aiuterebbe ad affermare una nuova forma di giustizia di tipo “riparativo” non “penale”. La forza degli esseri umani di poter cambiare deriva dalla consapevolezza del danno e dalla volontà di rimediare.
Pur condividendo la maggior parte delle riflessioni portate avanti dall’associazione Nessuno tocchi Caino ci sono degli aspetti molto delicati che secondo noi non possono essere ignorati.
Ad esempio la tipologia di reato e le circostanze in cui viene commesso, determinano e influiscono sulla possibilità di cambiare o meno, perché molto spesso capita che qualcuno esca dal carcere e commetta di nuovo lo stesso reato. Dal nostro punto di vista ci sono reati commessi sotto l’emozione della rabbia che non permette l’autocontrollo, pertanto il colpevole poi si pente ed è disposto a non ripetere più lo stesso comportamento distruttivo. Mentre ci sono persone che continuano a delinquere e che ripetono gli stessi reati, anche l’omicidio, che sono quindi recidive e non cambiano nonostante la riabilitazione, in tali casi andrebbe riconsiderata la pena dell’ergastolo da intendersi come “misura ultima” a protezione della società.
Dal dibattito successivo all’incontro, è emersa la necessità e l’importanza della prevenzione che inizia dall’ambiente familiare, sportivo ed anche scolastico.
Essenziale è imparare fin dall’infanzia che ogni azione ha una conseguenza e che è possibile raggiungere l’autocontrollo delle proprie emozioni soprattutto della rabbia. Ovviamente l’esempio degli adulti giocherà un ruolo fondamentale: se un bambino respira un’aria di violenza, da adulto sarà più predisposto a ridare ciò che ha ricevuto, ad imitare quel tipo di comportamento, non per scelta, ma perché ha conosciuto soltanto questo tipo di realtà. Tra l’altro c’è da dire che ci sono alcuni casi di persone affette da disturbi mentali che difficilmente potranno attuare comportamenti adeguati alla società in quanto “incapaci di intendere e di volere”. In quei casi si potrà curare con farmaci adeguati senza pretendere il cambiamento, perché non c’è la consapevolezza… e quindi anche la condanna a morte non avrebbe senso, così come l’inserimento in società, mettendo in pericolo altre vite. Purtroppo non ci sono ancora strutture idonee per queste persone, potenzialmente capaci di commettere reati, se non sorvegliate.
Concludendo sappiamo che è più facile lasciare che il male accada e vendicarsi ma attraverso il dialogo sia con la vittima, sia con il reo e l’allenamento a compiere azioni moralmente “buone”, è possibile disinnescare i processi violenti, spezzare la catena della legge del taglione. Il primo passo da fare, da parte nostra, cittadini della società futura, è quello di non giudicare le persone dai loro comportamenti, etichettandole buone oppure cattive in modo definitivo; ma tenere una porta aperta, in atteggiamento di ascolto mettendoci nei loro panni. Allora saremmo meno “feroci” nel condannarle per le loro azioni, senza concedere una seconda possibilità di vivere una nuova vita nel rispetto di sé e degli altri… così come a noi stessi concediamo di sbagliare e riparare al danno arrecato.
Questa modalità di confronto e relazione prende il nome di giustizia riparativa, come viene descritto anche nel libro “Scuola senza sbarre” della prof.ssa Sabrina Donó, che è stata docente per dieci anni presso la Casa Circondariale di Treviso. Sicuramente la scrittrice ha avuto un ruolo di primo piano nel farci comprendere luci e ombre di questa prospettiva di giustizia, soprattutto durante l’incontro svoltosi online del giorno 2 febbraio, in cui abbiamo avuto modo di sottoporle i nostri quesiti e le nostre perplessità.
Concludendo, riportiamo alcuni passi del libro per noi significativi.
Tratto da “Scuola senza sbarre”:
– “La visita [all’istituto penitenziario] per quel giorno finì, decisero le colleghe che per noi fosse abbastanza. Ci salutammo e l’appuntamento sarebbe stato per l’indomani. Salii nella mia auto pronta ad affrontare i 70 km di strada per arrivare dai miei, ricordo che non accesi nemmeno l’autoradio. Ricordo che entrai a casa, mi sedetti a tavola, non riuscii a mangiare e piansi. Dicono che sia sufficiente un solo giorno all’interno di un carcere perché avvenga la destrutturazione della personalità: beh, la mia era iniziata” (p. 16)
– Non ci si abitua mai, nè all’odore che aggredisce le narici quando entri, nè al rumore dei cancelli che sbattono e delle chiavi che ciondolano tintinnando appese alle tasche delle divise degli agenti di polizia penitenziaria. Anche quando nei mesi estivi o durante i periodi di vacanza rimanevo fuori da quel luogo l’odore restava nella testa e se a occhi bendati mi ci avessero condotto dentro lo avrei riconosciuto. E’ un odore che non senti da nessun’altra parte, è odore di chiuso, di sigarette, di cibo, di bagnoschiuma, di vita quotidiana. Si attacca addosso, ai capelli, ai vestiti, ai ricordi. (p. 17)
– La mia prima lezione di italiano ufficiale la ricordo come fosse oggi, soprattutto perché è stata la più deludente di tutta la mia carriera scolastica. […] Non c’era verso, non erano per nulla interessati a quello che avevo da dire, sbuffavano pure e la frustrazione che provai la sento ancora se ci penso. Dovevo fare qualcosa immediatamente. Allora chiusi il libro, misi da parte la lezione strutturata, mi sedetti e chiesi: Di che cosa avete voglia di parlare oggi? Fu una splendida chiacchierata, il clima si distese, i sorrisi si sprecarono e il tempo se ne andò portando con sé il senso di insuccesso che avevo provato. (pp. 21-22).
– Mi auguro che questa pubblicazione possa servire a far conoscere un mondo chiuso che ha originato solo stereotipi; a far riflettere sui crimini che si possono commettere e sulla privazione della libertà alla quale si può andare incontro; a far capire ai ragazzi quanto sia importante il rispetto delle leggi e dei diritti di tutti”. (p. 143).
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