“A cosa serve la mia firma?”

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Le buone notizie da Amnesty International

Nel corso delle nostre attività per la promozione dei diritti umani, in particolare quando presentiamo i nostri appelli, ci viene spesso fatta questa domanda: “A cosa serve la mia firma?”.

Per dare una risposta concreta nel sito della Sezione Italiana di Amnesty International (www.amnesty.it) c’è una rubrica dal titolo “Buone notizie”.

Da questo numero sarà presente anche in questo giornale. L’intenzione è anche quella di mostrare come il campo di azione di Amnesty International sia molto ampio visto che spazia da singoli casi di violazione dei diritti umani a violazioni di massa fino ad arrivare alla richiesta di introduzione di nuove leggi o modifica di quelle già esistenti.

La prima notizia riguarda Atena Daemi, attivista per l’abolizione della pena di morte in Iran, è tornata in libertà la sera del 24 gennaio. Era stata arrestata nel 2015 per aver criticato sui social media il continuo ricorso alla pena capitale nel suo paese (nel 2021 c’è stata una media di un’esecuzione al giorno) e poi condannata a 14 anni di carcere, ridotti a sette nel processo d’appello. In prigione era stata picchiata e aveva trascorso lunghi periodi in isolamento. L’anno scorso aveva condotto uno sciopero della fame che aveva messo in pericolo la sua salute.

La seconda si occupa della decisione del 12 gennaio di un tribunale polacco che ha respinto il ricorso in appello contro l’assoluzione di Elżbieta, Anna e Joanna, tre attiviste che erano finite sotto processo per “offesa ai sentimenti religiosi”, ai sensi dell’articolo 196 del codice penale e che avevano rischiato fino a due anni di carcere. Nel 2019 le tre attiviste avevano affisso, in vari luoghi pubblici della città di Plock, dei poster raffiguranti la Vergine Maria con l’aureola dipinta con i colori dell’arcobaleno, simbolo del movimento Lgbti.  Un anno dopo erano state rinviate a giudizio per aver “insultato pubblicamente un oggetto di culto religioso mediante una raffigurazione che ha offeso i sentimenti religiosi di altre persone”. Il 2 marzo 2021 erano state assolte, ma la Procura aveva fatto ricorso. Con la sentenza del 12 gennaio, la caccia alle streghe è terminata.

La terza ci informa che l’11 novembre 2021 la Procura Generale della Svezia ha aperto un’indagine nei confronti di due rappresentanti dell’azienda petrolifera e del gas Lundin Oil AB (ora Lundin Energy AB), per complicità in gravi crimini di guerra commessi in Sudan dal 1999 al 2003”. Secondo la Coalizione europea sul petrolio in Sudan, che ha svolto una lunga campagna perché si aprisse l’inchiesta, nella zona – ora appartenente al Sud Sudan – interessata dalle attività dell’azienda svedese morirono 12.000 persone e altre 160.000 furono costrette a lasciare le loro terre. Fu il governo locale, diretto già da allora da Omar al-Bashir, a rendersi responsabile di questi crimini efferati, ma l’indagine della Procura svedese vuole chiarire se quei crimini furono la conseguenza dell’accordo sottoscritto nel 1997 dalla Lundin Oil AB col regime sudanese. Se, in altre parole, vennero commessi per consentire all’azienda di operare nel territorio individuato per le sue attività estrattive.

L’ultima per questo numero si focalizza su una sentenza del Tribunale di Napoli del 14 ottobre scorso che ha condannato a un anno di reclusione il comandante della “Asso 28”, una nave di appoggio di una piattaforma petrolifera operante per conto della Mellitah Oil & Gas, gestita dalla compagnia statale libica del petrolio. Il 30 luglio 2018 la “Asso 28” aveva soccorso 101 migranti fuggiti dalla Libia, tra cui minorenni e donne incinte, per poi consegnarli ai guardacoste di Tripoli. La sentenza è la prima del genere nei confronti di una nave civile: conferma che la Libia non è un luogo sicuro e costituisce un monito per altre imbarcazioni del genere che, in caso di comportamento analogo, potrebbero essere a loro volta oggetto di una condanna.

Per chiudere un aggiornamento sul caso di Patrick Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna di cui ci stiamo occupando da 2 anni e che era stato descritto nello scorso numero. Il 7 dicembre, dopo 22 mesi di detenzione, era stato scarcerato in attesa dell’udienza fissata per il 1° febbraio che avrebbe dovuta decidere del suo futuro. Purtroppo c’è stato un ulteriore rinvio al 6 aprile per cui rimane sotto processo ma a casa propria dove, tra le altre cose, ha ripreso gli studi.

Come sempre, per rimanere aggiornati sulle nostre attività e firmare i nostri appelli, vi invitiamo a visitare il sito della Sezione Italiana (www.amnesty.it) e le pagine Facebook e Instagram di Amnesty International Italia e del gruppo di Treviso agli indirizzi indicati qui sotto.

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