Immaginate: è un giorno qualunque di un anno qualunque nel campo di sterminio di Auschwitz.
Siete uno dei milioni di ebrei imprigionati per cui un giorno vale l’altro, ormai abituati ad abusi e violenza. Per voi il mondo è buio, non c’è colore, non c’è felicità; il grigiore della vita impregna la vostra anima che, a questo punto, non è più spessa di un torsolo di mela rinsecchito.
Eppure non è così. Non è un giorno qualunque e l’anno è ancor più rilevante: il calendario segna il 27 gennaio del 1945.
Dopo alcuni anni di avanzata incontrastata, l’Armata Rossa ridimensiona i confini tedeschi fino al sud della Polonia, conquistata nell’ormai lontano 1939. I sovietici giungono davanti ad un cancello con l’imponente insegna che recita la bugia “Arbeit macht frei”.
Come si può essere liberi se si è ebrei in questo mondo?
Immaginate: ormai siete rassegnati, vi siete arresi a quella non-vita.
Diciamoci la verità: la bestia del terzo Reich ha calpestato la vostra libertà, vi ha rinchiusi e vi ringhia contro. Per colore che ne fanno parte non siete altro che bestie.
Eppure, anche quando la speranza sembra morta, i sovietici rompono le linee. Sentite spari, urla, bombe e poi…L’aprirsi di una porta.
Non sentivate un rumore così celestiale, così soddisfacente da almeno sei lunghissimi anni. Ed è solo l’inizio dei rumori che fanno stare bene: si rompono le catene, il cigolio delle celle si sente per l’ultima volta, i passi incerti di chi finalmente diventa libero davvero e poi il tipico rumore della neve che si rompe sotto il vostro peso.
Sfortunatamente, i sentimenti non seguono una logica o la normale regola di causa-effetto, quindi voi non riuscite a sentirvi felici. Lo sgomento va oltre la tristezza e, appena usciti, non sorridete, ma guardate il cielo, gli alberi e la struttura che volete lasciare al più presto.
La gioia è rimasta dentro di voi senza mai avere nessuno spiraglio per uscire, nessuna crepa nel muro che i nazisti vi hanno creato intorno.
Alla fine, hanno vinto loro. Alla fine, l’intento disumanizzante l’hanno raggiunto: vi hanno privato delle emozioni e pure il vostro stupore è tenue, forse condizionato dalla paura che il dolore possa ripresentarsi alla porta della vostra anima con tutta la sua intensità, per squarciarla e dividerla in mille frammenti, a dimostrazione che l’incubo non ha termine.
Immaginate: dopo sei lunghissimi anni dovreste sentirvi felici, ma non ci riuscite.
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Sebastiano Giovanetti (Collegio Vescovile Pio X – 4AM, Liceo Linguistico Europeo, indirizzo Moderno)