La fine della pandemia, la fine del mascheramento?

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Il 31 marzo scorso è terminato, dopo più di due anni, lo stato d’emergenza. Molte restrizioni stanno andando e andranno a cadere e, in generale, possiamo ragionevolmente affermare che la tensione che abbiamo provato in modo pressoché perenne, si allenterà. Anche il dispositivo di protezione per eccellenza, la mascherina, verrà utilizzata sempre meno. Eppure, in questi lunghi mesi, è stata un accessorio irrinunciabile, un “mai più senza”: tutti noi, prima di uscire di casa, abbiamo ossessivamente controllato di averla, di averne magari anche un’altra per sicurezza. Nelle tasche, nelle borse, appesa al braccio – e, soprattutto e innanzitutto, sulla nostra faccia. A proteggere sì, ma anche a coprire e mascherare. I nostri volti sono coperti a metà, di noi mostriamo solo la fronte e gli occhi. Tanto che, in contesti come quello scolastico, sembra poi davvero strano vedere studenti e professori a volto scoperto. I loro visi appaiono a volte bizzarri, ci ritroviamo a pensare che “non ce li immaginavamo così”. È bello rivedersi, riscoprirsi, rimettersi a nudo.

Ma siamo sicuri che sia davvero così, o meglio: siamo certi che sia così per tutti?

L’adolescenza, si sa, è un percorso burrascoso, una navigazione in acque agitate. Si passa dall’essere bambini inconsapevoli, spesso non curanti delle regole o del giudizio altrui, ad essere persone per così dire “a metà”, ossia non ancora formate, non ancora adulte, non ancora sicure di sé, delle proprie potenzialità, dei propri punti deboli e di quelli forti. Cambia la personalità, il carattere, ma muta soprattutto il corpo. 

È facile, quindi, ritrovarsi a non accettare l’immagine che lo specchio rimanda. E la mascherina, in tal senso, può essere stata per alcuni adolescenti un vero e proprio scudo. Un dispositivo di protezione non tanto dal Covid-19, quanto dagli sguardi e dai giudizi altrui. Ma anche una piccola corazza che ha permesso di guardare il mondo e i suoi abitanti, celandosi dietro ad una sorta di pseudo anonimato. 

ll filosofo francese Jean-Luc Nancy, scomparso ad agosto dello scorso anno, nel suo libro Ego sum parla della scelta di Cartesio di pubblicare anonimamente il suo Discorso sul metodo. Cartesio mostra al pubblico la sua filosofia come fosse un quadro dall’autore sconosciuto e resta dissimulato dietro a esso in ascolto, per capire che ne diranno gli altri. Cartesio espone sé stesso attraverso il suo pensiero filosofico, ma al contempo resta a guardare senza essere guardato, perché ha paura di mostrarsi per davvero, per chi è. Il filosofo padre del cogito, quindi, indossa metaforicamente una mascherina.

Eppure chi guarda, prima o poi dovrà anche necessariamente lasciarsi guardare, scoprirsi – altrimenti risulterà impossibile instaurare delle vere relazioni, dei rapporti che siano a doppio senso, ove entrambe le parti si mettono in gioco. «Il soggetto esposto» scrive Nancy «mette contemporaneamente in gioco il guadagno della sua sostanza e la perdita della sua identità». 

Togliendo la mascherina, mostrando il nostro volto, noi riguadagniamo noi stessi ma allo stesso tempo ci perdiamo, perché in qualche modo ci diamo agli altri, ci offriamo al loro sguardo. Per quanto risulti difficile e persino doloroso, è necessario imparare a stare dentro questo “doppio movimento”. Vale sicuramente la pena riflettere su questo tema, cercando di indagare a fondo i motivi che, eventualmente, ci inducono a desiderare che l’obbligo di indossare la mascherina non decada. Perché è un tema che porta con sé il concetto stesso di identità e di accettazione di sé, andando a problematizzarli. 

Francesca Plesnizer

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