Cinque anni senza Warrel Dane

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“Nemico della realtà” e storica voce del metal

Era il dicembre del 2017 quando arrivò sul mio cellulare un messaggio di un amico con scritto «R.I.P. Warrel Dane …».

«Ehm … stai scherzando, vero?» risposi io nel giro di un paio di secondi, mentre realizzavo che non avrei mai più avuto l’occasione di vedere dal vivo uno dei miei cantanti preferiti, diciamo pure un mio idolo di gioventù, come si suol dire.

Non scherzava: Warrel Dane (1961-2017), cantante statunitense fondatore dei Sanctuary e soprattutto dei Nevermore, gruppi fondamentali per gli ultimi trent’anni di heavy metal, era appena passato a miglior vita previa un infarto, causato dal diabete con cui lottava già da tempo.

Dane, originario di Seattle e scomparso in Brasile dove si trovava in tournée (stava infatti proseguendo una carriera di cantante solista, iniziata nel 2008 con l’album Praises to the war machine), a parere di chi scrive non era un “semplice” cantante metal. Dotato di uno stile canoro potente e drammatico ispirato per sua stessa definizione alle voci storiche di questo genere, come Bruce Dickinson degli Iron Maiden, Rob Halford dei Judas Priest e Ozzy Osbourne dei mai troppo lodati Black Sabbath, Warrel Dane era attivo fin da giovanissimo dalla fine degli anni Ottanta con i Sanctuary, che univano l’epica potenza dell’heavy con la furia fragorosa del thrash metal di Megadeth, Testament e degli insuperabili primi Metallica, e sciolti molto presto per questioni personali e soprattutto commerciali, dopo l’uscita del secondo e per allora ultimo album, il bellissimo Into the mirror black del 1990.

Ma per fortuna, dopo una pausa di qualche anno, è nel 1995 che il cantante torna fieramente sulla scena al microfono di una band che, almeno per quasi tutto il decennio successivo, dimostrerà uno spessore superiore nel panorama del metal moderno: i Nevermore.

Sempre affiancato dal fido bassista Jim Sheppard (già nei Sanctuary) e reclutati il batterista Van Williams e il virtuoso chitarrista Jeff Loomis (abilissimo tanto nei riff devastanti quanto negli oscuri e malinconici passaggi acustici che caratterizzeranno le migliori canzoni del gruppo), Warrel darà il meglio di sé in dischi come Nevermore (1995), The politics of ecstasy (1997, anticipato dal magnifico mini-cd In Memory) e il solenne, cupissimo Dreaming Neon Black (1999), sia come cantante che come autore dei testi, talvolta realistici e pessimisti, più spesso impenetrabili nel loro bizzarro simbolismo.

L’immaginario della musica dei Nevermore, infatti, non è certo dei più rosei: se i primi due album sono incentrati soprattutto sulla critica dell’alienante e oppressiva società americana, in Dreaming Neon Black si canta il senso di terribile solitudine dopo la perdita di una persona amata, con la consapevolezza di vivere in un mondo sempre più alla deriva (sembra che l’album, in cui emergono influenze dark tanto care a Warrel che si diceva grande ammiratore dei Sisters Of Mercy e dei Bauhaus, sia ispirato a tristi vicende personali).

Una visione alquanto apocalittica, quindi, ma non priva di speranze, come affermava lo stesso Warrel in una vecchia intervista a Metal Hammer (che potete leggere integralmente negli approfondimenti indicati alla fine dell’articolo) ai tempi gloriosi di Dead Heart in a Dead World, nella lontana primavera del 2000.

Dead Heart in a Dead World, quarto disco del gruppo, è peraltro ricordato ancora oggi come un super-capolavoro della band di Seattle (come provano canzoni incredibili come We Disintegrate), degnamente seguito tre anni dopo dall’ancora più “distruttivo” Enemies of Reality. Nei brani di questo nuovo, maestoso disco dei Nevermore, il biondo e lungocrinito cantante si concentra sul concetto di percezione effettiva o relativa di ciò che chiamiamo “realtà”, rievocando a modo suo fantasmi platonici (come parrebbe suggerire il brano Noumenon) e rimandi alle visioni di Aldous Huxley e di Jim Morrison, essendo Warrel da sempre un grande appassionato della musica dei Doors.

Dopo This Godless Endeavour del 2005, sesto album che si potrebbe considerare non certo sottotono ma nemmeno all’altezza superlativa dei dischi precedenti, i Nevermore prendono una lunga pausa che vedrà l’uscita del primo album solista di Warrel, un disco che in buona parte si allontana dal suono della band originaria in favore di un metal più intimista e “tranquillo”.

Infine, arriva nel 2010, dopo una lunga gestazione, il sesto album The Obsidian Conspiracy: se la potenza sonora è consueta e ineccepibile, lo spessore e la qualità della maggior parte dei pezzi mostra ormai una certa stanchezza, per quanto emergano almeno un paio di canzoni magnifiche come Emptiness Unobstructed e Moonrise (Through the mirrors of death) a conferma che della grandezza dei Nevermore è sicuramente rimasto qualcosa.

Poi, i drastici colpi di scena: dopo l’ultimo tour mondiale, il gruppo di Seattle si scioglie ufficialmente e, nonostante nulla lasciasse presagire la cosa, nel 2014 Dane rimette in piedi i Sanctuary che pubblicano addirittura un nuovo album, The year the Sun died, dopo ben ventiquattro anni.

Così, mentre la rinata carriera dei Sanctuary proseguiva e tutti speravano in un ritorno dei Nevermore in qualche remoto futuro, Warrel Dane se ne è andato in solitudine e discrezione. E per una beffarda, anzi spietata ironia del destino, ciò è avvenuto il 13 dicembre, lo stesso giorno in cui, 16 anni prima, morì per un male incurabile il grande Chuck Schuldiner, fondatore dei Death, nome storico del metal estremo e grande amico di Warrel.

Davvero singolare e triste, infatti, il destino che ha indirettamente unito questi due amici e grandi personaggi del metal moderno, soprattutto se teniamo conto che Enemies of Reality, uscito due anni dopo la dipartita di Schuldiner, era infatti dedicato alla sua memoria («Questo disco è dedicato a Chuck. Che il Metal scorra nell’eternità …» recita la toccante nota all’interno del cd dei Nevermore), e che, poco prima di andarsene, il chitarrista/cantante che aveva sciolto i Death per dare il via al progetto più classicamente progressive metal dei Control Denied, pare volesse chiamare proprio Warrel Dane al microfono del gruppo.

Come accennato, ovviamente io non ho mai conosciuto Dane, né sono mai riuscito a partecipare a un concerto dei Nevermore, nonostante siano stati uno dei miei gruppi metal preferiti in assoluto nei miei lontani giorni di adolescente disadattato (mi ritengo però fortunato ad avere scambiato due chiacchiere con il simpatico e cordiale Jeff Loomis, in occasione di una sua partecipazione all’apertura di un negozio di strumenti in quel di Vicenza, nell’ormai lontano 2011).

Rimane, come sempre in questi casi tristi ma purtroppo nell’ordine naturale delle cose, la grande musica lasciata dagli artisti che se ne vanno forse troppo presto.

Consiglio quindi a tutti di recuperare la discografia dei Sanctuary (perlopiù i primi due ottimi dischi, con l’ugola di Dane alla massima potenza… per quello dopo la reunion, vedete voi!), ovviamente dei Nevermore (in particolare fino a Dead Heart, o al seguente Enemies of Reality) e almeno l’album d’esordio di Warrel solista (su quello pubblicato postumo, Shadows Work, non posso pronunciarmi, non avendolo ancora ascoltato). Tutti capitoli validi e importanti del metal moderno, dai quali emerge una voce come non ce ne sono altre in questo genere: quella di Warrel Dane.

Per quanto mi riguarda, può sembrare strano ma effettivamente, per ovvi motivi forse un po’ troppo sentimentalistici, da ormai cinque anni non spolvero la mia collezione di dischi dei Nevermore.

Ma forse un giorno lo farò.

Buon viaggio oltre i confini della realtà, Warrel!

Jari Padoan

Approfondimenti:

Future Tense dei Sanctuary:

Intervista a Warrel Dane, 20 maggio 2000:

http://www.metalhammer.it/interviste/2000/05/20/nevermore-il-cuore-pulsa-ancora/

The Heart Collector, dall’album Dead Heart in a Dead World dei Nevermore:

I Nevermore suonano Enemies of Reality al Wacken Open Air 2004:

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