Il ricordo a 45 anni dalla scomparsa
Yukio Mishima (pseudonimo di Kimitake Hiraoka, 1925-1970) è un nome fondamentale nella letteratura giapponese del secolo scorso; potremmo dire anche di questo secolo, a giudicare dal fatto che a tutt’oggi resta uno degli scrittori nipponici più letti e celebrati al mondo, forse più di altri illustri “colleghi” tuttora in attività nell’ambito della narrativa giapponese, come Murakami Haruki e Banana Yoshimoto.
La poetica che emerge dalle numerose opere di questo complesso e poliedrico autore (romanzi, racconti, drammi teatrali) ha infatti da tempo conquistato l’attenzione e l’ammirazione del pubblico e della critica anche al di fuori del Paese del Sol Levante: in Mishima si vede oggi un personaggio simbolo del travagliato passaggio della cultura giapponese alla contemporaneità , una condizione che viene analizzata in un sofferto romanzo di formazione come «L’età verde».
Mishima fu un personaggio scomodo (sostenne sempre un ostentato e ferreo nazionalismo), ma soprattutto un fiero portabandiera di una letteratura giapponese moderna ma che guarda alle tradizioni millenarie del Paese del Sol Levante: già nella sua raccolta di racconti con cui debutta, «La foresta in fiore», emerge dalle narrazioni di Mishima un lirismo sognante che riprende immagini dell’epica e della leggenda.
Nato a Tokyo nel 1925, il giovane Mishima termina presto e brillantemente gli studi e si dedica fin da giovanissimo alla produzione di versi e racconti, studiando i classici giapponesi ma rivelando anche una grande ricettività alle arti e alle letterature occidentali: conosce la Bibbia, il Romanticismo, ama Dostoevskij e Oscar Wilde dei quali si può notare una profonda influenza nella sua visione dell’arte e della vita, apprezza autori americani come Tennessee Williams e addirittura negli anni Sessanta cura una traduzione giapponese del dramma di Gabriele D’Annunzio «Il martirio di San Sebastiano».
Infatti, la caratteristica che rende Mishima una figura così ostica e a sé stante fu proprio quella di essere stato un profondo conoscitore e assimilatore della cultura occidentale e allo stesso tempo un irriducibile nazionalista, come testimoniano esplicitamente opere dei suoi ultimi anni come «La via del samurai» o «La voce degli spiriti eroici». Comprensibilmente scosso dalla devastante sconfitta giapponese nella Seconda guerra mondiale, dagli anni del dopoguerra Mishima prese a ostentare ulteriormente una ferrea aderenza ai principi artistici, spirituali, militari di quel Giappone tradizionale nel cui nome decise programmaticamente di morire: infatti, quarantacinque anni sono passati da quando, il 25 novembre 1970, Mishima pose fine ai suoi giorni con un gesto ardito e plateale: il seppuku, il suicidio regale con cui, per tradizione, i samurai del Medioevo giapponese si infliggevano una morte onorevole in circostanze estreme. Il fatto che tale atto venne perpetrato in pubblico, a conclusione di un’occupazione del Ministero della difesa del Giappone che lo scrittore aveva personalmente organizzato (coadiuvato dai giovani allievi del Tate no kai, l’associazione nazionalista ovviamente fondata da lui medesimo), gli conferì la forma di un gesto di rivolta, verso la direzione decadente che il Giappone aveva intrapreso in seguito alla capitolazione davanti alla vittoria degli Alleati, e al materialismo che sarebbe dilagato nel Paese dopo il nuovo ordine instaurato dalle forze occidentali.
La fine di Yukio Mishima, che nella sua prospettiva volle invece essere eroica e onorevole e che secondo molti fu il gesto definitivo di una personalità egocentrica e narcisista, avvenne per sua scelta proprio quando la sua carriera artistica era già da tempo all’apice della fama e del riconoscimento: il tragico compiersi, quindi, di un destino segnato già da tempo, di una direttiva di vita di cui la sua complessa opera letteraria è stato un fedele riflesso e che rimane, tuttora, a richiamare in vita una delle anime più tormentate e sensibili della recente Storia giapponese e della letteratura contemporanea.
Jari P.