A spasso nelle tenebre con Iron Maiden

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I trent’anni di Fear of the dark

«I am a man who walks alone, and when I’m walking a dark road, at night or strolling through the park …
When the light begins to change, I sometimes feel a little strange, a little anxious when it’s dark …
Fear of the dark, fear of the dark …»

A quanti giovani e ormai meno giovani “metallari” sono familiari i primi versi di Fear Of The Dark, una canzone tra le più potenti, celebri e profonde mai messe in musica dagli Iron Maiden, autentica istituzione vivente dell’heavy metal?

Quanti ragazzi in tutto il mondo, nel corso degli ultimi trent’anni, si sono commossi a quelle parole scandite con timbro sepolcrale da Bruce Dickinson, in un solitario e introspettivo ascolto del disco (o dell’mp3, visto il cambio di tempi) «quando la luce comincia a cambiare», come recita il testo della canzone?

Scusate l’accorata e pomposa introduzione, ma, come avrete capito, c’è qui un estimatore degli Iron Maiden di ormai vecchia data, e stiamo appunto parlando di un capitolo in particolare della ormai vastissima discografia pubblicata dalla band londinese fondata dal funambolico bassista Steve Harris.

L’album Fear Of The Dark, infatti, in questo 2022 celebra il suo primo trentennio dalla sua uscita, oltre ad essere stato nel frattempo più volte ristampato visto l’inarrestabile successo mondiale del gruppo. A proposito, personalmente io rimango affezionato alla mia edizione in compact disc del ’98, con tanto di traccia rom e materiale interattivo incorporato, cose oggi considerate antiquariato nella nostra frenetica società dominata dall’onnipresenza degli “smartphone”… ma sapete, tra gli anni Novanta e i primi del Duemila i dischi erano ancora qualcosa di rigorosamente fisico e Internet cominciava solo allora, per quanto abbastanza rapidamente, a diventare più accessibile per tutti.

Fu un importante periodo di passaggio, e chi l’ha vissuto potrà confermarvi le mie parole!

Fear Of The Dark, si diceva, è un disco ben noto a tutti gli appassionati di questa musica (in particolare ovviamente ai seguaci degli Irons, che esordirono, ricordiamo, con l’omonimo album ben 42 anni fa), e rimane un disco importante sostanzialmente per due motivi principali.

Il primo è il suo valore prettamente “storico”: è infatti il nono album della band, e fu anche quello che ebbe l’onere, nella lunga storia degli Iron Maiden, di chiudere la cosiddetta prima “era Dickinson”, iniziata con il celeberrimo terzo album The Number of the Beast, uscito nel lontano 1982.

The Number of the Beast, un disco che scolpì a caratteri cubitali la storia del metal, vedeva infatti l’entrata al microfono dei Maiden del giovane e lungocrinito Bruce Dickinson, ventiquattrenne laureato in Storia nonché cantante dall’ugola potentissima, con il quale il gruppo inciderà dischi successivi che potremmo definire con un ampio raggio di aggettivi che vanno da “strepitosi” a “immensi” (se lì tra voi c’è qualcun altro che ancora oggi si chiede quale album sia più grande tra Piece Of Mind o Powerslave, comprenderà!), questo almeno fino al deludente No Prayer for the Dying del 1990 che vedrà l’uscita del chitarrista Adrian Smith (che con l’altra storica chitarra del gruppo, Dave Murray, e il batterista Nicko McBrain completava la formazione “classica” degli Iron Maiden anni Ottanta).

La perdita di Smith e la stanchezza di una band stressata da quasi un decennio di tournée mondiali sono evidentemente le cause principali di questo album non certo all’altezza delle aspettative nei confronti degli Iron, decisamente sottotono anche rispetto alle opere sfornate da vari ed illustri “colleghi” della scena metal nel passaggio di decennio: tanto per richiamare qualche celebre esempio, nel 1990 i Judas Priest demolivano tutto con un album devastante come Painkiller, gli inossidabili e compianti Motörhead pubblicavano l’anno seguente l’imperdibile 1916

Negli ambiti del metal più moderno e pesante, oltre alle nuove uscite dei sempre più osannati Slayer e Pantera, si stavano inoltre consolidando i nuovi sottogeneri “estremi” come il death e il black metal, e gruppi formidabili come i Paradise Lost in Inghilterra e i Type 0 Negative negli USA davano forma alla cupa scena gothic. I Metallica? Impegnatissimi a guadagnare milioni di dollari con un disco super-radiofonico come il cosiddetto “Black Album”…

Ma ecco che nel ’92 la Vergine Di Ferro torna alle luci della ribalta, proponendo l’atteso nuovo disco dal titolo evocativo e, è il caso di dirlo, oscuro.

Infatti, fin dalla suggestiva copertina si può percepire la sensazione di oscurità che avvolgerà i solchi di questo album: vediamo un possente e scheletrico albero che, alla luce della Luna piena, assume le sembianze di Eddie, il simpatico morto vivente emblema e mascotte degli Iron Maiden onnipresente su tutte le copertine della band, che nelle immagini interne del disco viene raffigurato anche in forma di enorme pipistrello, l’animale simbolo delle forze notturne.

La formazione di Fear Of The Dark è la stessa dell’ultimo album (Janick Gers, il chitarrista che ha rimpiazzato degnamente Smith, è di certo più a suo agio in questo disco e si sentono i risultati) e la maggior parte dei nuovi brani si muove sulle coordinate “hardrockeggianti” di No Prayer for the Dying, anche se la potenza solenne degli Iron Maiden più epici, fortunatamente, riemerge in varie canzoni come nella iniziale Be quick or be dead, aggressiva e marziale senza mai perdere il grande senso di melodia metal tipicamente “maideniano”, nella dolente ballata Afraid to shoot strangers e nel singolo From here to eternity (una canzone ingiustamente dimenticata, forse anche dagli stessi Maiden, che secondo me è invece un grande pezzo in questo periodo non così luminoso per la band). Senza dimenticare, naturalmente, la conclusiva e omonima canzone. Infatti, rendiamoci conto di che cosa stiamo andando a considerare … Stiamo parlando del secondo motivo per cui Fear Of The Dark è un disco importante nella carriera degli Iron Maiden: se nel complesso è un album pressoché abbastanza mediocre o comunque poco più che sufficiente, ha il pregio di concludersi con una canzone superlativa, un autentico capolavoro come gli Iron non realizzavano dai tempi dalle composizioni grandiose e complesse di Seventh Son of a Seventh Son (1988)… .

Ciò si avverte subito dall’apertura del brano, una maestosa introduzione dal respiro quasi sinfonico, prima di dipanarsi nelle malinconiche tessiture delle chitarre acustiche. L’atmosfera, dal sapore quasi medievale, riesce ancora oggi a trasmettere una impalpabile, sconfinata sensazione di nostalgia e solitudine, che potrebbe ricordare le cose più eteree e gotiche dei primi Black Sabbath. La tensione viene sapientemente caricata dall’intensa voce di Dickinson, a cui segue la tipica accelerata verso l’epico ritornello (seguendo uno schema che nei successivi trent’anni sarà più volte riproposto dagli Iron nei brani più maestosi). 

Ma ovviamente, la potenza e l’oscura malinconia di questo brano non sono facilmente descrivibili a parole e ci si deve immergere nell’ascolto per comprendere come Fear Of The Dark sia da più parti considerata uno degli apici di tutta la discografia degli Iron Maiden (come ad esempio sottolineava, tanti anni fa, il mio vecchio compagno di scuola Diego “Motörhead” Barzan, nelle nostre conversazioni “metalliche” assieme ai nostri amici Ross e il Madda …quanto tempo, eh ragazzi?).

Apparentemente il testo ci racconta, in prima persona, il vissuto di un uomo alquanto problematico, vittima delle sue stesse fobie che lo hanno portato a una vita di isolamento sociale. La “paura del buio” che attanaglia l’insonne e angosciato protagonista, che, citando i versi scritti da Harris, «guarda film horror di notte» ed è «spaventato nel dare un’occhiata in quell’angolo della stanza», è stata oggetto di svariate interpretazioni. In una ovvia e generica chiave di lettura, il «buio» del titolo può indicare quel buio che più ci spaventa, ovvero la morte, o più in generale l’oscurità come immagine dell’ignoto. L’Eddie in versione “vegetale” in copertina si potrebbe intendere, infatti, come un riferimento al simbolo dell’albero nelle grandi tradizioni pagane, in particolari nordiche, celtiche e slave, poi sopravvissute perlopiù come forme folkloristiche e superstiziose nell’uomo moderno.

C’è chi ha interpretato la maideniana «paura del buio», invece, come metafora di quella che incontriamo tutti alle soglie dell’adolescenza: la paura di crescere, la triste consapevolezza della precarietà delle cose e il timore della perdita di ciò che amiamo, delle grandi prove della vita, una paura che, quindi, ci può portare a un grande senso di vuoto e di sconfitta. E gli Iron Maiden, anche se all’epoca già ultratrentenni e ampiamente milionari, avevano conosciuto bene il disagio giovanile vissuto tra le strade di Londra, e lo avevano sublimato nei primi dischi (l’esordio del 1980 e il fenomenale Killers dell’anno seguente), rivolti a un giovanissimo pubblico che provava le stesse cose e che, dopo la conclusione di un decennio come gli effimeri e superficiali anni Ottanta, si rendeva conto di sentirsi ancora peggio. A ciò si aggiunga la fine della Guerra Fredda con la ridefinizione di inquietanti prospettive politiche e sociali, oltre ai tragici venti di distruzione della Guerra del Golfo in corso (tematica alla quale, non a caso, è dedicata la citata Afraid to shoot strangers).

Infine, il «buio» di cui i Maiden avevano paura, è stato detto, era forse quello che minacciava un po’ tutta la scena heavy metal nei primi anni Novanta, poiché il genere doveva ormai fare i conti con le nuove scene rock come l’alternative e il grunge, esploso in quegli stessi anni grazie al grandissimo successo di giovanissimi gruppi statunitensi come i Nirvana e i Pearl Jam. 

Se consideriamo inoltre che Fear Of The Dark rappresentò appunto l’uscita di scena di Bruce Dickinson (che sarà poi sostituito dal buono ma meno efficace Blaze Bayley), l’album assunse quasi i tratti di un “testamento” della fase classica della band, fino al disco della reunion con Dickinson e Smith ovvero il celebratissimo Brave New World del 2000.

Insomma: una malinconica e romantica meditazione sulla paura della vita e della morte, una cupa riflessione sulle profonde inquietudini personali di tutti noi, e, per qualcuno, preziosa colonna sonora di un periodo irripetibile della propria gioventù (e chi mi conosce sa di cosa parlo!), caratterizzato appunto da molte paure ma da altrettante speranze: questo rappresenta una canzone come Fear Of The Dark.

Ancora oggi, quell’uomo che cammina solitario per una strada buia è un simbolo importantissimo: quello delle ombre, non importa quanto profonde e minacciose, che devono essere attraversate da ognuno di noi per raggiungere la luce, anche e soprattutto in un periodo buio come quello che stiamo vedendo oggi.

E gli Iron Maiden, oggi come nel 1992, ce lo ricordano con la bellezza oscura di questo disco e soprattutto di questa leggendaria canzone.

Up the Irons!

Jari Padoan

Approfondimenti:
Recensione del libro di Martin Popoff Fear of the dark. Gli Iron Maiden negli anni Novanta, Tsunami Edizioni >>

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1 COMMENT

  1. Bell’articolo, molto ben scritto! Apro e chiudo velocemente una parentesi su un gran pezzo – ahimè decisamente trascurato dalla band in sede live – di puro heavy metal, contenuto all’interno di quest’album spesso criticato proprio per le sonorità hard rock che spesso si ritrovano durante lo scorrere della tracklist: il titolo della canzone è Judas Be My Guide, e già che ci siamo cogliamo la palla al balzo e riascoltiamola ancora una volta…

    https://youtu.be/1pfH3ux1eEU

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