Perché i bambini devono giocare?
Innanzitutto, perché le attività ludiche rappresentano una tappa fondamentale lungo l’intero arco di vita dell’uomo, tanto nei bambini quanto negli adulti. Sosteneva Platone che “Si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione”.
E poi perché il gioco rappresenta un aspetto che concorre allo sviluppo sia dei bambini che dei giovani sotto molteplici aspetti: da quello sociale, a quello fisico, cognitivo ed emotivo; diversi studi hanno dimostrato infatti i benefici del gioco nella vita del bambino a livello sociale, fisico, emotivo, linguistico e comportamentale.
Un aspetto così importante, il gioco, da essere riconosciuto dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, nel 1989, come “diritto” inviolabile e insindacabile di ogni bambino.
Come giocano i bambini?
Il gioco e le attività ludiche si modificano e crescono di pari passo con la crescita del bambino e il suo sviluppo intellettivo e psicologico: da quello solitario fino ai due anni, nel quale è coinvolto il proprio corpo e quello della madre, un gioco che permette al bambino di imparare a distinguere dove finisce proprio sé e dove inizia l’altro; a quello parallelo ed egocentrico dei bambini verso i tre anni, età che per la maggior parte dei bambini coincide con l’inizio della scuola dell’infanzia, nel quale iniziano ad apparire i primi giochi di socializzazione; a questa età che il bambino è interessato a giocare con altri, inizia ad imitare il comportamento dei bambini o degli adulti che gli sono accanto, ma senza esser capace di adattarsi alle esigenze dell’altro.
È “solamente” a partire dai 6 anni che i giochi iniziano a svolgersi in gruppo e ad essere caratterizzati da regole: il bambino impara a stare con i coetanei nel rispetto di queste, ma anche a gestire le frustrazioni che inevitabilmente lo stare con gli altri e nel rispetto di alcune regole comporta, a dover mediare le proprie esigenze con quelle portate dagli altri bambini.
Una tappa fondamentale nella crescita del bambino è rappresentata dal gioco simbolico, il “fare finta che…” , nel quale si acquisisce la capacità di rappresentare tramite gesti o oggetti una situazione non attuale: ecco allora che una scatola può diventare una casa, si può “fare come se” si stesse guidando un’auto stando semplicemente seduto su una sedia “come se” si avesse un volante tra le mani, si può “fare come se” si fosse una maestra, o una parrucchiera, con le bambole e gli orsacchiotti, si può “fare come se” si stesse bevendo il caffè anche se non si ha una vera tazzina in mano.
Il “fare finta che” permette al bambino di creare un film del quale è contemporaneamente sia regista che attore: giocando trasforma la realtà, la reinventa, a proprio piacere, creando un mondo immaginario che riflette le sue fantasie, le sue emozioni, le sue paure. Un film che si fa sempre più complesso man mano che vengono coinvolte altre persone e vengono messe in scena nuove situazioni. Il bambino inizia a coinvolgere anche altre persone, in primis i genitori, in questi suoi giochi da lui diretti: “Facciamo che io sono… e tu sei…?”.
Il bambino, nei termini della finzione, può diventare tutto ciò che vuole, può fare tutto ciò che vuole.
Perché allora i bambini devono giocare?
Perché il gioco non è quindi un semplice passatempo, ma un vero e proprio lavoro per il bambino; per lui, non c’è niente di più serio e coinvolgente del gioco.
E gli adulti?
Sono chiamati a favorire l’espressione del gioco fin dalla nascita del bambino, nel rispetto delle specificità di ogni età. Diventa allora necessario che anche gli adulti che affiancano il bambino lungo la giornata, a partire dai genitori e gli insegnanti, diventino strumenti e compagni di gioco in questi momenti, adattando le richieste, proponendo materiale, anche il più diverso, che stimola la fantasia del bambino, gli permettano di creare film ogni giorno nuovi in cui recitare e far recitare ai compagni e agli adulti ruoli sempre diversi, o sostenendo le prime forme di socializzazione con giochi di gruppo governati da regole verso i sei anni.
Laura Marostica
Psicologa Psicoterapeuta