Le gatte dei filosofi

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Quesiti sul rapporto tra umano e animale

Una volta il filosofo Michel Montaigne si chiese se mentre trascorreva del tempo con la sua gatta fosse solo lui a farlo con lei e non anche viceversa. Un ottimo quesito anche per voi, se avete in casa un inquilino peloso – o pennuto o squamoso –, ma valido per chiunque incroci una mucca sul suo sentiero di montagna o un merlo che zampetta fuori dalla finestra o un pinguino nella teca di un acquario. Il tema che solleva questa domanda è interessante, è quello della prospettiva con cui affrontiamo una qualsiasi conversazione sul mondo animale. Di solito questa prospettiva è antropocentrica, e ci induce a chiederci se gli animali “soffrano come noi” o “pensino” o “provino delle emozioni” – tutte cose che per certo facciamo noi umani, appunto. Oppure facciamo un paragone tra le nostre abilità intellettive con le loro costruendo scale immaginarie d’intelligenza tra scimpanzè, cani e polipi. In altre parole, non li consideriamo mai semplicemente come Altro da noi, nel senso di diverso sì, ma anche di esistente di per sé, con una propria individualità e ragion d’essere che non ha nulla a che fare con noi.

Queste riflessioni ci riportano a un’altra gatta e a un altro filosofo, Jacques Derrida, che un giorno si sorprese a provare vergogna nell’uscire nudo dalla doccia sotto lo sguardo silenzioso del felino. E perché mai, direte voi? Derrida scrive che la sua gatta possiede un suo punto di vista su di sé, il punto di vista dell’assolutamente altro. Questo suo pudore all’improvviso lo ha scaraventato fuori dalla propria soggettività e che lo ha indotto a valutare – innanzitutto con la sua gatta – una relazione non più unidirezionale verso il mondo come la si è sempre pensata.

Ora, pensare con reale attenzione a questo Altro non è un problema da poco, soprattutto se ampliamo lo sguardo dagli animali domestici a tutti gli altri animali: quelli che mangiamo, quelli che cacciamo, quelli che spingiamo sull’orlo – e oltre – dell’estinzione. È un problema difficile perché questa cura nei confronti dell’Altro animale implica la limitazione della nostra super potenza umana; implica di iniziare a intravedere un fine kantianamente inteso laddove prima c’era una “cosa”, un mezzo. Questo perché quando entriamo in una qualsiasi relazione con qualcuno o qualcosa, necessariamente acquisiremo dei doveri nei confronti del nostro interlocutore. Sembra impensabile per il “super umano” del XXI secolo doversi togliere dei diritti in cambio di nuovi doveri, specialmente se nei confronti di un coccodrillo o un totano o una gallina. Eppure, se ci pensiamo bene, sono spesso le conquiste di diritti in ambito umano a rinvigorire il dibattito sulla questione animale, a partire dall’Illuminismo, la fine della segregazione razziale, la ricerca della parità di genere, il dibattito sull’aborto e la definizione di vita e di umano che ne consegue. Il grande teorico della liberazione animale, Peter Singer, dice che «ogni movimento di liberazione richiede un continuo allargamento dei nostri orizzonti morali». Certo, gli animali non sono parte della nostra specie, dunque c’è una naturale e forte preferenza da parte nostra nei confronti dei nostri simili, che del resto sono anche capaci di comprendere il concetto stesso di diritto: in effetti, perché riconoscere dei diritti a degli esseri che non sanno neanche cosa voglia dire?

Ci sono varie risposte a questo quesito. Una è più complessa da abbracciare perché implica una nostra decisa uscita dalla visione antropocentrica. Infatti «rispettare ciò che è simile a noi, piuttosto che ciò che è differente, implica che, ancora una volta, consideriamo, con mentalità specista, il nostro volto come modello cui commisurare gli altri animali», scrive la filosofa Luisella Battaglia. Non sono quindi le capacità di un essere vivente a dotarlo di diritti: il piano sul quale giocare la partita è piuttosto quello della sofferenza, riconoscibile soltanto se si è disposti a guardarla anche in un volto poco o tanto diverso dal nostro, gli occhi di un cavallo o quelli di una rana. Il punto è inserire l’animale, pur nella sua diversità, in uno stesso, grande orizzonte di vita in cui ci siamo anche noi. Riconoscendolo come interlocutore in una muta conversazione, immaginandoci attraverso i suoi occhi mentre interagisce con noi, proprio come – forse – era la gatta di Montaigne a intrattenere il filosofo e non soltanto viceversa, e così la mucca che s’imbatte su di noi nella sua passeggiata in montagna.

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