Ricordo perfettamente la prima volta che sono andata al Centro Aba.
Era un giovedì mattina di fine estate, il cielo era grigio, l’aria umida. Mi accompagnò mia mamma…
Ricordo la strada per arrivare dalla dottoressa De Stefani: ricordo il silenzio da cui mi sentivo avvolta, un silenzio assordante, che faceva rimbombare la confusione dei mille pensieri che avevo per la testa.
Ricordo che tutto, attorno a me, sembrava muoversi alla velocità della luce; vedevo gli altri indaffarati, mi passavano vicino rapidi, distratti; io osservavo, come uno spettatore, lo spettacolo di quella quotidianità che ormai non mi apparteneva più. Io, a differenza dal resto della gente, mi muovevo a rallentatore, o meglio, questa era l’impressione, terribile, che avevo in quel periodo.
Al Centro Aba non ci volevo andare, non credevo mi potessero aiutare, o forse è meglio dire che non volevo essere aiutata: l’anoressia rappresentava paradossalmente un’ancora di salvezza, era per me l’unico modo per farmi notare, per far notare il mio mal stare; ma queste sono cose che capii solo molto tempo dopo grazie alla cura, e che riuscii ad ammettere -a me stessa ed agli altri- ancora più tardi.
Perché decisi di andare all’Aba nonostante, apparentemente, non lo volessi? Per molto tempo ho risposto a questa domanda dicendo che acconsentii ad iniziare ad intraprendere il processo di cura per dare un briciolo di sollievo ai miei genitori, per far vedere loro uno spiraglio di speranza nella vastità di buio che mi, e ci, circondava. È passato più di un anno e mezzo da quel giorno di settembre ed ora, la risposta che dò a questa domanda è un’altra: mi piace pensare, ed in fondo son convinta sia così, che ho deciso di andare al Centro non per i miei genitori, o meglio, non principalmente per loro; sono andata lì perché, nonostante avessi attorno uno scudo che mi allontanava dalla vita e nonostante continuassi a dire, pensare, e dimostrare che non volevo lottare per me stessa perché nulla aveva più un senso, dentro di me -come dentro ognuno di noi- c’è un qualcosa, una luce, una piccola candelina che, per quanto esile e debole, continua ad ardere quasi fino all’ultimo momento; quella candelina dentro di me era tutto ciò che era rimasto di caldo e forte dentro il mio corpo, ed era lì a ricordare, più al mio inconscio che alla “me” razionale, che la vita è un dono meraviglioso che non va sprecato, che per la vita bisogna lottare, non importa cosa ci sia successo… era lì per ricordarmi che dopo la tempesta esce il sole, sempre. Era lì per dirmi che si può tornare ad essere felici, che bisogna credere nelle proprie forze, anche quando sembra che quest’ultime ci abbiano abbandonati.
Oggi, dopo un anno e otto mesi dall’inizio della terapia, posso assicurare che quella piccola candelina non si sbagliava affatto. Dopo il primo mese di tentennamenti, decisi di affidarmi completamente alla mia dottoressa e di mettermi in gioco totalmente: volevo tornare ad essere una ragazza felice, volevo tornare a vivere e ad essere padrona della mia vita. Non è un processo rapido, o almeno il mio non lo è stato particolarmente, ma ne è valsa assolutamente la pena: adesso sono una persona diversa, adesso sono felice.