Saltellando distrattamente da un canale all’altro una domenica sera, per caso, mi imbattei in un programma (del quale non menzionerò il nome perché non è allo specifico che mi riferisco, bensì alla categoria a cui appartiene); non ne avevo mai sentito parlare e al primo impatto non mi colpì più dello stretto indispensabile per confermare il sospetto che la domenica sera dovrei trovarmi qualcosa di meglio da fare.
Esasperata, avevo già posizionato il pollice sul pulsante del canale successivo, quando qualcosa sullo schermo mi colpì con una forza sorprendente. C’erano due persone sulla scena colorata: un uomo e una donna. Nel torpore del sonno, naturale reazione alla prospettiva della mattina di scuola l’indomani, mi era sfuggito un particolare il quale era tornato a vendicarsi assalendomi con forza quasi fisica: mentre il conduttore maschile era in completo di jeans, camicia e giacca, la sua collega sfoggiava una “mise” (esiste la parola: “non-mise”?) di tacchi letali (per la ragazza in questione, si intende, che era in evidente pericolo di rompersi almeno una gamba) mutande nere e una giacchetta scintillante chiusa in modo molto precario sotto il petto e quasi del tutto inutile, siccome lasciava scoperto sia il ventre che l’abbondante seno.
Accantonando il mio sincero dubbio su quali dei due stesse soffrendo maggiormente, se lui per il caldo o lei per il freddo, guardai un pezzo del programma; in parte, ammetto, mossa dalla curiosità di scoprire quale dei due avrebbe ceduto prima agli agenti atmosferici e sarebbe corso ad appoggiare la giacca o mettersi un bel paio di pantaloni, a seconda del caso, ma principalmente per il senso di disgusto che mi stava pervadendo, paralizzandomi temporaneamente e donandomi un insano color verdastro. Nonostante la pessima prima impressione, infatti, il programma riuscì a degenerare ulteriormente poiché, aldilà di quello che era il suo scopo, lo spettacolo a cui faceva da sfondo era davvero aborrevole: il presentatore, un ometto insignificante e irritante, continuava a svilire e denigrare la sua collega, criticando con lo sguardo la sua leggerezza nei movimenti e nella risata, canzonando il suo lieve accento (la sventurata aveva sofferto la sfortuna di nascere donna, per di più straniera e aveva scelto una carriera nel mondo dello spettacolo… ironia crudele!) insomma, non la trattava meglio di un cane. Per quanto riguarda la signora in questione, si sforzava, con un impegno davvero ammirevole, di apparire più priva di cervello possibile, stando al gioco del presentatore, sbattendo le ciglia e sorridendo in una maniera che pareva quasi dolorosa, poveretta. Questa donna era di una bellezza squisita: lineamenti fini e sensuali impreziositi da due occhi neri, attorniati da lunghissime ciglia, corvine come i fluenti capelli, e il presentatore era indubbiamente ben consapevole che nella vita reale, al di fuori della tv e del mondo utopico dello spettacolo, sarebbe stato da considerarsi fortunato di ricevere uno sputo in un occhio da una donna simile, e proprio per questo trovava patetico piacere nel poterla dominare e “sconfiggere”, umiliandola, mostrandosi migliore e più intelligente di lei. Il fatto più sconcertante è che chiaramente credeva, così facendo, di soddisfare la perversa sete di superiorità che i suoi produttori evidentemente attribuiscono al pubblico maschile. Dopo un po’ dovetti spegnere incredula ed esterrefatta la televisione, ero orripilata.
Rimango allibita che all’interno di una società che ha la faccia tosta di definirsi civilizzata, premendo un pulsante sia questo che vedi: una donnina con le gambe da puledro e due seni che sfidano ogni legge della fisica, che si umilia per il divertimento di una manciata di spettatori e, spero, per il ribrezzo della maggioranza. Lo strumento mediatico televisivo è un mezzo di diffusione d’idee, notizie e pensieri, troppo influente per proporre valori sbagliati o pericolosi. In particolare i cosiddetti “programmi varietà ” mirano a spettatori di molteplici e diverse fasce d’età, e le conseguenze si stanno già riversando inesorabili su di noi. Ormai i sondaggi su cosa i bambini (seppur d’età generalmente troppo tenera per avere la più vaga idea di cosa faranno o vorranno fare da grandi) intendono o desidererebbero fare una volta abbastanza grandini per lavorare, illustrano percentuali elevatissime di bambine che, nella loro breve vita, hanno sempre avuto come massima aspirazione quella di diventare letterine, veline, e via discorrendo. Ormai non vogliono più essere veterinarie, salvare tutti i piccoli Bambi che hanno bisogno di loro; piuttosto sognano di mostrare del proprio corpo tutto ciò che è legale mostrare all’interno della fascia protetta, ballando, cantando e ammiccando come dei burattini con la cavità cranica rigorosamente capace di produrre un sonoro eco.
“Bambolina”, forse, è il termine migliore per definire questo mestiere che incorpora sia il concetto di bambola (bellissima e benvoluta, ma rigorosamente muta, insipida e stupida sul proprio piedistallo), sia quello della declinazione diminutiva (sinonimo di degradazione ed inferiorità).
Certo le “bamboline” stesse non possono essere assolte dalla colpa di cui si sono fatti carico i produttori che le ingaggiano, anzi: sono loro in primis che propongono al pubblico l’idea della donna usa e getta, di loro stesse come banale oggetto sessuale, perché le loro inscenate di questo si trattano: di oggettivizzazione della figura femminile, vendere il proprio corpo per diventare celebrità famose e magari realizzare quello che è il loro sogno per eccellenza: sposare un calciatore dai capelli unti e spalmato di autoabbronzante e vivere felici e contente in un paese tropicale fin quando non saranno settantenni e il terrore della vecchiaia ormai sopraggiunta le avrà indotte, con il trascorrere degli anni, a subire tanta chirurgia plastica che non avranno altra opzione che sorridere ininterrottamente… in poche parole saranno sul serio felici e contente per sempre, la loro faccia chirurgicamente assemblata assicurerà almeno quello.
Raramente mi è capitato di sentire qualcuno condannare questo ideale di donna-oggetto: ormai è dato per scontato, come unica e migliore ipotesi, assunto come un fatto naturale quando non dovrebbe esserlo. E’ un insulto a ogni singolo essere umano, uomo o donna che sia, che abbia lottato per la parità tra i sessi. Svilisce la figura della donna, le toglie ogni dignità, proponendola come un bene di consumo qualunque, tutta facciata e niente personalità , facilmente reperibile con un cambio di canale. Ancora peggio: pone le basi per un giudizio sulla persona femminile che si basa solo sull’aspetto esteriore, senza considerare la ricchezza della bellezza interiore, eternamente più affascinante di qualsiasi aspetto fisico. Nemmeno gli uomini sono, però, immuni da tale immagine tanto negativa: questi spettacoli infatti sono testimoni anche di una forte generalizzazione nei confronti delle persone di sesso maschile considerate e trattate come schiavi inebetiti dei propri sensi e per giunta troppo stupidi o ignoranti per apprezzare il valore di una persona, di una donna, per di più quello che balza immediatamente agli occhi. La donna, come qualsiasi essere umano, è fatta per essere amata e per amare, invece di essere odiata e ferita in tutti i modi più subdoli e umilianti. Sarebbe opportuno che i produttori fossero almeno giusti e, se proprio non possono o non vogliono dare l’addio alle loro veline, istituissero un corpo di velini maschili per intrattenere le spettatrici (e gli spettatori interessati) con danze sinuose, ammiccamenti ed intimo brilluciccante. Il prodotto finale sarebbe un circo repellente di volgare e squallida bestialità, ma in fin dei conti sarebbe equo: che sia almeno data a tutti la possibilità di essere animali!
Isabella G. (Liceo Da Vinci)