C’è fermento nell’aria: una volontà di rinnovamento serpeggia tra le donne e si amplifica attraverso i social network che fungono da cassa di risonanza di un sentimento di frustrazione, mancato riconoscimento e scarso supporto.
La celebrazione della giornata della donna, la festa della mamma, le infelici dichiarazioni di Elisabetta Franchi sono state alcune delle occasioni che hanno acceso il dibattito sulle diverse tipologie di sostegni alla maternità e di come questa si possa conciliare con la realizzazione di sé anche da un punto di vista professionale.
La domanda è sempre la stessa: perché in Italia, anche quando presente un desiderio di genitorialità, si decide di non fare figli/e o di limitarsi ad un/una solo/a figlio/a per coppia?
Diverse sono le voci che compongono il variegato coro del dibattito pubblico: politici, sociologi, giornalisti, influencer, comici, mamme e donne di ogni categoria e astrazione.
Da quando fare figli/e è diventato un affare privato e non una responsabilità collettiva?
Le famiglie allargate hanno lasciato il posto alla famiglia nucleare sulla quale ricade l’onere pratico, economico, psicologico ed emotivo della crescita di bambini e bambine.
Un famoso proverbio cita “per crescere un bambino ci vuole un villaggio”, ma oggi questo villaggio dov’è? Se si desidera un aiuto bisogna cercarlo, richiederlo, molto spesso pagarlo. La stessa rete di sostegno di cui tanto si parla va creata, frequentando gli incontri, i ritrovi, le realtà giuste. Le famiglie si rivolgono sempre più spesso a specialisti, ricercando aiuto, sostegno e semplice conoscenza anche per orientarsi tra gli aspetti più fisiologici della nascita e dell’infanzia.
I servizi sono pochi e raramente rispondono alle esigenze di una famiglia dove entrambi i suoi componenti lavorano a tempo pieno e i costi per integrazioni, tate, baby sitter molto spesso risultano insostenibili. Il lavoro non sempre è un luogo dove le esigenze di una mamma vengono comprese e assecondate, magari variando modalità e tempi in maniera flessibile e dinamica.
Noi di Associazione CoCo ci chiediamo se non sia giunto il momento di tenere nella giusta considerazione le rinnovate esigenze di una famiglia che è cambiata rispetto al passato, spesso addirittura monogenitoriale e per la quale si rendono necessari nuovi servizi e sistemi di welfare.
Spesso parlando con mamme e papà (ma soprattutto mamme) risulta evidente che la maggior parte delle difficoltà risiedano in una serena conciliazione tra lavoro e famiglia, considerando che in molte realtà la maternità venga percepita come una limitazione. Non è raro sentire di realtà professionali all’interno delle quali non vengano concessi part time, gestioni flessibili dell’orario, permessi, maternità facoltative etc.
Sentiamo spesso parlare di ospedali amici dei bambini, farmacie amiche dei bambini, servizi baby friendly e quant’altro, forse sarebbe opportuno creare un albo dei “lavori amici dei bambini e delle bambine”, dove una donna possa sentirsi valorizzata e supportata sia dal punto di vista professionale indipendentemente dalle sue scelte personali.
Valutare i luoghi di lavoro in base a dei parametri predefiniti (possibilità di usufruire della maternità facoltativa/concessione del part time/nido interno/contributo per nido o tata/possibilità di usufruire dello smart working etc) darebbe la possibilità alle candidate di orientarsi verso scelte più sostenibili, ma anche ai datori di lavoro di uniformarsi a degli standard condivisi.
Associazione CoCo è vicina alle donne e alle mamme, ci piacerebbe avere un riscontro su queste tematiche e magari lavorare insieme per la creazione di un sistema più equo e rispettoso nei confronti della genitorialità, tornando a considerare i figli e le figlie come una responsabilità sociale e collettiva, fondata sull’impegno di crescere responsabilmente e rispettosamente gli adulti di domani.
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Elisa Di Giovanni
Associazione CoCo
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